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par Heike Mittler

 
LA SCATOLA DEL DOTTOR WALLABY

© Mario BiancoSono passati ormai due anni da quando sono entrato in possesso della scatola. Non è altro che una vecchia scatola da biscotti di latta rossa, marca Huntley & Palmers, grande come quelle per le scarpe, un po' sverniciata, ma gradevole per i suoi antiquati e bei caratteri. I primi tempi la aprivo sovente; me la posavo la sera sulla mia scrivania, alla luce potente della mia lampada, delicatamente alzavo il coperchio e stavo a rimirare il mistero delle tante scatolette pure di latta, accuratamente sistemate dentro di essa.
   E' la scatola del dottor Wallaby; la scatola che ho ereditato da lui circa due anni fa. Non ebbi certo solo questo: mi lasciò pure inaspettatamente una dozzina di preziose monete d'oro antiche, tra cui va annoverato un bellissimo darico di pulitissimo conio e tre aurei di Costantino il grande. Per altro io non avevo bisogno di denari, poiché gli affari mi vanno discretamente, ma la scatola, sì che mi ha stupito! La tengo, ora dietro la mia scrivania, alle mie spalle, in luogo non visibile ma facilmente accessibile.
   La apro, ora, solo nei momenti difficili; mia moglie Elisabetta lo sa, quando mi vede la sera tardi davanti ad essa, che spargo sulla scrivania il contenuto dei vari tubetti, astuccini e cofanetti, sa che sono preoccupato per un qualcosa, ma sorride e se ne va a letto: sa che leggere nel contenuto degli scatolini mi fa bene.
   Conobbi il dottor Wallaby, circa vent'anni fa; entrò una sera nel nostro ristorante "Lombardo", che è il nostro cognome, in Hereford road, e venne a cena due volte in una settimana. Gli piacque quindi la nostra cucina italiana e internazionale, genuina e raffinata e dopo la seconda cena mi fece chiamare; mi trovai di fronte ad un distinto signore di settantacinque anni, molto alto, il volto assai lungo con ancora folti capelli bianchi. Mentre si tormentava il suo gran naso, si complimentò per i buoni cibi che gli erano stati serviti e chiese discretamente se in futuro, frequentando il nostro ristorante, avrebbe potuto avere del minestrone, o meglio della ribollita, che lui amava molto, in quanto in un lontano, lungo soggiorno in Toscana, assai l'aveva apprezzata nelle sue varie versioni.
   L'anziano signore mi fece una richiesta insolita, ma in casa la ribollita la sapevamo fare, per quanto la preparassimo assai raramente e glie la servimmo il giovedì appresso. Glie la servii io stesso, avevamo preso un appuntamento, il tipo mi piaceva e fui felice di accontentarlo; il dottor Wallaby mentre sorbiva le prime cucchiaiate di minestra ed io stavo attendendo il suo parere, cominciò a far cenni di assenso e prese a parlare in italiano, la nostra lingua paterna, che io conosco ormai poco, essendo nato a Londra. Sorridendo prese ad ammiccare, volle che mi sedessi e bevessi un bicchiere di Chianti dal Gallo nero con lui.
   Così iniziò la nostra consuetudine: Wallaby arrivava il martedì ed il giovedì sera, mangiava assai contento la sua ribollita, indi un pezzo di cacciagione, si gustava un intera bottiglia di vino rosso e chiedeva di me; per cui nel nostro ristorante si potè trovare ribollita il martedì ed il giovedì, per il piacere anche di altri affezionati clienti.
   A volte, non avrei voluto perdere tempo con il signor Wallaby, poiché avevo molti avventori, e lui sempre voleva che sedessi qualche minuto con lui per parlarmi dell'Italia, dei bei mesi che vi aveva trascorso. Io, mio fratello e mia sorella, l'Italia la conosciamo assai poco, poiché siamo londinesi; qualche parola nel nostro lessico famigliare la scambiamo, i modi di dire di papà e mamma. Conosciamo vini e cibi, discretamente, ma qualcosa e poco dell'arte, Venezia , Firenze, Roma e Castronuovo, il paese dei nonni.
   Wallaby invece amava parlarmi dell'arte italiana e si dilungava, peraltro con diletto e passione, sulle bellezze viste in quel paese; io stavo ad ascoltarlo, se la situazione me lo permetteva: c'era qualcosa da imparare da quell'uomo ed era anche divertente. Era colorito e ricco nel parlare, quando gestiva ed disegnava nello spazio sopra il suo tavolino la facciata di un duomo o una pala d'altare, pareva di vederle materializzate nelle forme e nei colori tra i fumi del minestrone.
   Dopo qualche settimana di affezionata frequentazione, il mio distinto cliente, una sera si mostrò accigliato. Mi indicò le pareti della sala in cui cenava.
   "Quei quadri – disse – quelle incisioni, mi dispiace dirglielo, sono male incorniciate… Mi scusi… le incisioni sono discrete, sono Piranesi, ma le cornici dorate,… quelle cornici dorate… non ci van bene, non sono degne delle opere che contengono. Mi perdoni, ma non mi piacciono, mi disturbano… non posso fare a meno di guardarle mentre ceno… e ne provo fastidio. La pregherei di pensarci e le offro una chance…Io ho una bottega,… Sono un antiquario di cornici e penso di poter trovare per le sue acqueforti, alcune belle cornici in noce modanate di buona fattura…"
   Rimasi colpito dall'appunto fatto al mio locale, in quanto parecchio avevo pagato ad un antiquario del nostro quartiere di Bayswater, le incisioni già incorniciate, anni prima. Le cornici non mi parevano stonate e nemmeno brutte, per quanto moderne: poi io di queste cose non me ne intendo molto, le aveva scelte mia moglie che ne capisce più di me.
   "Veda,… non vorrei essere troppo insistente – continuò il dottor Wallaby – non lo faccio per fare un affare,… Le farei un prezzo assai conveniente, venga la prego da me, uno dei prossimi giorni… il mio negozio è qui nei pressi… in Westbourne Grove… Lo faccio per me , per Lei e… per Piranesi!"
   Il mattino dopo, sul presto, appena aperto il mio locale presi i quadri, ne feci un bel pacco e mi recai all'indirizzo del dottor Wallaby. Egli abitava in una palazzina accostata ad un altro edificio; essa era ed è una casa di tre piani fuori terra, completamente dipinta di uno strano color verde, piuttosto strettuccia ed alta: al piano terra stava un decoroso negozio con una grande vetrina ove poteva godersi la vista di alcune bellissime cornici decorate e smaglianti. Alcune di esse, molto grandi, appoggiate su cavalletti erano persino esposte sul marciapiede; qui, nel nostro quartiere siamo vicini a Portobello Road e ci gira parecchia gente in cerca di antichità. Eppure a me pareva quel negozio di non averlo mai visto: so di non avere l'occhio per le antichità, ma il negozio stava soltanto a quattro isolati dal mio esercizio. Si sa… nelle grandi città spesso non si conosce cosa sta dietro l'angolo della via in cui si abita.
   Entrai, il soffitto era alto e fino ad esso, appese a catene, salivano cornici di vari formati, su cavalletti appoggiati qua e là cornici contenevano pitture scure, forse antiche, con vasi, fiori, elmi e bicchieri. Comparve nella penombra, era una mattina piuttosto buia, un altro anziano, forse di poco più giovane ed un po' più basso, del mio cliente, avvolto in un abbondantissimo spolverino grigio.
   "In che cosa posso servirla?" mi chiese.
   "Veramente… cercavo il signor Wallaby" – io dissi.
   "Il… dottor.. Wallaby non c'è ora , arriverà più tardi… può dire a me… se Ella vuole."
   "Veramente cerco proprio il… dottor Wallaby, perché è Lui che mi ha raccomandato, di venire qui personalmente, per cambiare le cornici di questi… cose… lui è un mio affezionato cliente… Sono il proprietario del ristorante 'Lombardo' qui dietro."
   "Allora… in questo caso… vedrò se il dottore può scendere."
   Lo strano personaggio si avvicinò quindi con lentezza ad una parete, dietro una tenda trovò uno strano aggeggio che pareva un telefono e comunicò concisamente con l'assente.
   Dopo due minuti di mia trepida attesa, udii dei rumori di passi rimbombanti provenire da un locale accanto, era il dottor Wallaby che scendeva lungo la scala, dalla sua abitazione soprastante. Entrò, elegante come sempre, in un abito color antracite di buon taglio, sotto indossava un corpetto di velluto bordeaux finemente operato, con una catenella d'oro che andava da un'asola al taschino; una cravatta gialla assai fantasiosa posava su una classica camicia a righe blu dal candido colletto.
   Come fu entrato il mio raffinato cliente allungò le sue lunghissime braccia, quasi volesse abbracciarmi:
   "Ohh!… E' venuto… è venuto subito… Che bravo!… che bravo! Bravo!" – mi ripeté diverse volte "Bravo" in italiano – "Questo ci voleva… Lei l'ha capito… Ho capito subito che Lei è un uomo intelligente… ed ha gusto… forse non lo crede… ma Lei ha gusto. Se non l'ha ancora affinato– io Le insegnerò a migliorarlo ed a migliorare!"
   Mi parve grandioso, molto roboante il dottor Wallaby nel suo dire, indi prese a svoltolare rapidamente il pacco dei quadri.
   "Eccoli… i suoi gioielli!.. Eccoli i bei Piranesi! Ecco le Vedute di Roma…! E lei voleva mandarle in giro vestite così, queste belle opere! Mio caro… Non si può mandare in giro una bella donna vestita di stracci! Il nostro buon signor Tony glie le rivestirà,… le sue opere! – poi rivolto al suo singolare garzone – Signor Tony , La prego di prendere quelle cornici del conte Lascaris… Laggiù… Lei sa…"
   A me venne freddo, mentre il detto Tony scompariva nel retro, pensavo alle cornici di un conte, al loro prezzo, alla mia incompetenza in fatto di valutazione di opere d'arte. Ero molto imbarazzato, temevo di essermi cacciato in un pasticcio, forse in una… truffa.
   "Egregio amico… egregio amico,… se Lei permette che La chiami amico – riprese l'antiquario – non si spaventi , mi pare che Lei sia un poco impallidito!" – e per farmi rincuorare mi dette due pacche sulla spalle – "Non l'ho convocata qui per buggerarla, stia tranquillo,… Le darò cornici che ho da anni e da cui non mi sarei staccato volentieri e lei non Le pagherà care… Guardi… Se lei permette faremo uno… scambio merci. Io verrò a cena da Lei una decina di volte e con questo mi riterrò pagato!"
   Vidi le cornici: esse mi parvero veramente belle, di un buon noce antico, scuro, finemente modanate ed il Wallaby, poi , si dilungò a spiegarmi del loro valore intrinseco, dell'epoca e della provenienza.
   I Piranesi sono sempre lì, nella sala grande del mio locale con quelle belle cornici. Ogni tanto stacco io stesso i quadri e pulisco le cornici con dell'olio di paraffina; sono passato ormai quasi vent'anni ed il mio cliente se n'è andato per sempre.
   Diventammo così, se si può dire, amici con quello scambio di merci, e ne facemmo tanti ancora nel corso del tempo; facemmo scambio di conoscenze e di famiglie. Dopo un anno circa che il dottor Horace Wallaby frequentava il mio locale ed io il suo negozio, mi permisi di invitarlo a pranzo a casa mia la domenica, quando teniamo chiuso il ristorante. Ad Elisabetta piacque il nostro ospite; tanto glie ne avevo parlato nei mesi precedenti, e ne temeva quasi la comparsa; da quel momento lo amò proprio come un vero parente: ad Elisabetta non piacciono i londinesi, ma le piaceva Wallaby perché era spiritoso, cortese ed espansivo, trovava veramente poco inglese il suo tagliar l'aria con le lunghe braccia, le ricordava il povero nonno suo. Infatti il dottor Wallaby era australiano, e nonostante ciò gli si affezionò, veramente, quasi quanto me.
   Quando il mio amico, il mio padrino, il mio cliente Horace Wallaby divenne più nostro intimo, mi raccontò qualcosa della sua vita; di nascita in quel di Melbourne, da famiglia di allevatori e possidenti, di una laurea a Londra in giurisprudenza e poi di suoi viaggi per il mondo, di strane frequentazioni con affaristi, poi con storici, con artisti. Un passato di elegante e rischioso vagabondo, contraddistingueva la gioventù del nostro; era alla ricerca di una vocazione a quanto pare e la trovò in Italia, ove viste diminuite le sue rimesse australiane, dovette prendere la decisione di diventare mercante d'arte.
   Mi accennò appena al periodo bellico: so che lo passò in Svizzera, ne parlò soltanto una volta, con molta amarezza, mi disse soltanto: "L'ignoranza,… la miseria dell'umanità è incommensurabile… facciamo quasi schifo… se non ci fosse l'arte faremmo veramente orrore … anche alle formiche!"
   Mi parlò della sua povera moglie, una bella signora svizzera che stava effigiata in un ritratto, dipinto ad olio ed incorniciato magnificamente con una cornice nera fiamminga "guillauchèe", nel suo piccolo studiolo, di sopra. Ne ebbe due figli maschi che vivevano uno in Canada e l'altro negli States, si crucciava assai di non vederli quasi mai, ma ebbi il sospetto che con loro non andasse molto d'accordo.
   Lo frequentai assiduamente, stavo bene con lui, avevo molto da imparare, non so veramente che cosa, ma la sua vicinanza mi arricchiva. Non riuscivo ad entrare in perfetta sintonia, propriamente, ma l'ammiravo e gli volevo bene come ad un vecchio padrino. Andavo là nel suo negozio o sopra, nel suo studio tutto rivestito in legno con la grande scrivania di quercia e parlavamo di questo e di quello, più spesso lui mi faceva racconti dei suoi viaggi, più sovente ancora tesseva la sua opera di affinamento, mi dirozzava, mi erudiva dolcemente, squadernava libroni sulla scrivania e mi svelava con sottili ragionamenti i misteri dell'ARTE. Io in iscambio cercavo di donargli ricette poco conosciute e di svelargli le malizie che si usano nella cucina di un buon ristorante, per rendere i cibi più gradevoli e i piatti più allettanti, anche esteticamente.
   Proprio là, sul piano più alto del frontale della sua scrivania, vidi per la prima volta la scatola rossa; stava sempre là in alto, in posizione centrale. Una sola volta la vidi aperta nel mezzo della scrivania, vidi altri scatolini di diversi colori dentro, allungai un poco il collo per curiosare, ma il dottor Wallaby immediatamente la richiuse mentre mi avvicinavo e la rimise con gesto misurato al suo solito posto. Pensai che contenesse dei preziosi e rimase lassù a troneggiare per anni.
   Non so se essere contento o dispiacermi di essere venuto in possesso della scatola rossa, ormai che il dolore per la perdita del nostro caro Wallaby si è leggermente sfumato; di fatto per volontà del mio stesso, diciamo così, benefattore, ne sono erede e proprietario.
   La scatola, come dissi è verniciata in rosso ed avrà una sessantina d'anni, dentro è dorata; ben incastrate, secondo la loro forma e grandezza, stanno altre sedici scatoline o tubetti di latta, una in plastica e un borsellino in cuoio munito di cerniera lampo, sopra tutto questo una chiave. La chiave è un manufatto in ferro dell'ottocento, lunga circa diciotto centimetri; essa è strana per un particolare: fu malamente dipinta d'oro in un passato non lontano.
   Il borsellino in cuoio, di dozzinalissima qualità, contiene infilate in un normale anello d'acciaio elastico, trentadue bellissime chiavette o chiavine per cofanetti o valigie, la più lunga di queste misura trentadue millimetri di lunghezza, ancora tre di queste sono chiavi per orologi da tasca; nessuno di questi oggetti è particolarmente prezioso, per quanto tutti siano vecchiotti.
   La scatolina in plastica, corpo quasi estraneo al resto, che contenne un tempo cinquanta dragees, senza zucchero, della Nutra Sweet, ora custodisce, in due scomparti, otto piccole biglie d'acciaio e trentadue pietrine per accendini.
   Una bella scatola verticale di tabacco Revelation, dalle sponde arrotondate, ha nel suo ventre alcune matassine di fili metallici, di rame, costantana, ferro e zinco, al lato sta una scatolina dorata, simile alla scatola madre, senza emblemi, che già fu un portafiammifferi da viaggio; dentro quest'ultima stavvene un'altra, rettangolare e tedesca, su cui sta effigiato un frontone di tempio greco e già contenne puntine d'acciaio per grammofono, invero dentro di sé ora ha una lente circolare, un'altra potentissima rettangolare ed un minuscolo contafili.
   Una bruna scatola per sigari olandesi Ritmeester, contiene disposti in diagonale e per questo sempre difficilmente richiudibile, tredici oggetti metallici: sono un manico di bisturi in acciaio, quattro succhielli di forma diversa, un tracciatore in vanadio tedesco, un paio di forbicine antiche, pregevoli, un astuccio lungo e compresso per apposite altre forbicine a molla, un cacciavite, una chiave doppia per dadi quadrati, una chiavetta a tubo, una lima a coda di topo ed un magnifico, lucente coltello a serramanico in acciaio, come nuovo di marca italiana Triangolo.
   Una scatola italiana, chiara, di pillole per la tosse, ha nel suo seno due astucci diversi in plastica trasparente morbida, contenenti minuscoli cacciaviti a lame intercambiabili più due chiavi regolabili a cremagliera o vite senza fine, di cui una sicuramente bella e rara.
   Un'altra rettangolare bassa, dal fronte dorato, di pillole Bronchal, contiene vari aggeggetti per chiudere quali: due finti lucchetti, vari anelli in acciaio armonico, porta chiavi con chiusura a molla, di cui uno singolarissimo di marca Le Parisien, quattro chiavi per contatto auto, una Fiat, una Sunbeam, le rimanenti senza nome.
   Una più piccola di flake tobacco Gallaher, ha in sé altre due scatolini, uno di clorato di potassio ora contiene quattordici anellini in acciaio armonico, l'altro di un preparato di acido fosforico di nome Recresal, contiene ora due strani anelli metallici con bullone per fermar tubetti, un singolarissimo pressoio a vite che pare uno strumento di tortura, una botticella in ottone chiusa a vite: apertala, si può scovare nel suo interno, una sferetta in ottone con bulloncino, un piccolissimo dado da gioco rosso, un fermaglio a vite per collana in ottone, due medagliette di diametro tre millimetri con Maria Vergine, due pietrine trasparenti tagliate a rosetta, forse di vetro.
   Per non dilungarmi troppo, voglio solo qui ancora annoverare che un tubo già racchiudente compresse di canfora, ora, zeppo fino all'orlo, contiene più di cento bulloncini, dadi e controdadi nei metalli più vari. Una scatola a base quadrata dell'inizio del secolo, che un tempo conservò del nastro per macchine da scrivere Columbia, ora è piena di monete inglesi varie, in gran parte ancora in corso legale: questo contenuto pare proprio un corpo estraneo, non capisco che ci facciano quelle monete recenti in quella scatola così vecchia, forse la più vetusta, la più scolorita.
   L'oggetto più misterioso, se vogliamo, dell'insieme, sta in compagnia di altri quattro suoi simili in un astuccino dorato per pillole Hydrotricine: sono graffette, fermagli, pinzette a molla o morsetti per antiquati impianti elettrici; su una di queste, ovale orlata di racemi, in argento, sta effigiato uno scarabeo sacro, finemente inciso. A volte sono preso dal desiderio di usarlo a mo' di distintivo al bavero della giacca, ma per ora non riesco a toglierlo alla compagnia dei suoi affini.
   Di fatto non capisco nulla di tutto ciò, non capisco come mai il dottor Wallaby tenesse in gran conto quest'oggetto con tutti i suoi annessi, tanto da porlo in posizione troneggiante sul suo scrittoio, dove figuravano esposte ben altre opere d'arte, però mai osai dire all'anziano signore che secondo me stonava quella scatola di biscotti, un po' graffiata e bollata, in mezzo ad una coppia di candelieri in argento del tempo di Giorgio III.
   Ho pensato che racchiudesse in questa scatola, in queste scatole, oggetti cari od oggetti utili, ma come può una persona a posto con la testa, avere per cari centocinquanta bulloncini? Gli oggetti utili, e per altro possedeva bellissimi attrezzi scientifici e da lavoro, li custodiva nel suo laboratorio, nel retro del negozio.
   Perché quell'uomo mi ha lasciato questa singolare eredità? Ai figli giustamente lasciò gli immobili, ad un museo donò parecchi dipinti ed oggetti di arte applicata, alla signora Bose che gli fece da governante nei suoi ultimi due anni di vita lasciò un bel gruzzolo; a me lasciò le monete, forse per gratitudine e la scatola: è la scatola che mi meraviglia… sempre. Mi inquieta e mi tranquillizza.
   Nei primi tempi mi ponevo molte domande e mi logoravo a cercar spiegazioni e una spiegazione deve pur esserci; ora apro il cofanetto, apro la "cassa del tesoro" come dice Elisabetta, che sta sempre lì pulito come allora, l'annuso, annuso quel caratteristico odore di sigaro rancido che ha mantenuto della casa del mio defunto cliente. Tutte le scatolette, che più o meno brillano, sempre mi incuriosiscono e non ne conosco completamente ancora il contenuto, dopo decine di volte che le ho aperte. Sempre dimentico un pezzo. Mi è persin venuta la voglia di far l'inventario di quelle cosine, poi preferisco star lì a rimirare, toccare e spargere sul cuoio verde dello scrittoio.
   Pare che là dentro ci sia l'ordine e il disordine del mondo. Perché in un preciso ordine fu lasciata, un ordine che non riesco più, purtroppo a riprodurre completamente; le scatole sono incastrate ben bene l'una con l'altra e ci stanno appena nel contenitore.
   Così, ad esempio, i tredici oggetti della scatola Reetmester, son posati in modo tale che, se uno ne varia l'ordine, la scatola non si può chiudere bene e, tutte le volte che ne vuoto il contenuto, ho bisogno di sette o otto minuti per reincastrare armoniosamente i vari pezzi.
   Che ci fa, tra i tredici, un bisturi d'acciaio rotto, senza lama… a che serviva? Arnesi per chiudere e per aprire . Una chiave bella, ben lavorata e poi dipinta maldestramente con l'oro dei vasetti. Io la lascio così, non tocco niente… non posso toccar niente. Se toccassi qualcosa in quello strano inventario di miserie e grandezze del mondo è come se cambiassi il cielo in un quadro di Turner. Se necessito di un piccolo cacciavite, non vado certo a cercarlo negli scatolini… Me lo compro.
   Ho pensato ai numeri, al dodici, al trentadue che ricorrono, poi ci sono il diciassette e il tredici, l'otto e il tre, ma anche il quattro. C'è anche l'uno e il due: in un tubetto sta un altro tubettino, vuoto .Che sia un'opera di una strana alchimia, potrebbe anche darsi: il Wallaby qualche volta mi parlò di Alchimia, ma io di questa scienza non me ne intendo e non interpellerò nessuno studioso per svelare il mistero della scatola, che è conosciuta soltanto da Elisabetta ed dai miei figli, i quali guardano e sorridono.
   Un mistero c'è: o il Wallaby era un pazzo o un originale, cosa che io, per la lunga dimestichezza che ebbi con lui, non credo oppure mi ha lasciato un messaggio enigmatico e sono io che devo scoprirlo, senza mediazioni, col tempo. Potrebbe essere anche soltanto un gioco, un puzzle da lui inventato, ma non mi pare che Horace Wallaby, fosse tipo da rompicapi, solitari o simili passatempi, poiché fino agli ultimi giorni si mantenne attivo come antiquario.
   Una prima analisi ho completato. Le scatole piccole vanno sempre riconnesse entro la scatola rossa in un certo ordine preciso e non ci stanno se non in un modo; cosippure il contenuto degli scatolini, per ora è fisso: in alcuni non si può variare la posizione della minuteria, altrimenti non si chiuderebbero, in altri, pochi, è possibile disporla diversamente. Ho pensato che tutto ciò raffigurasse la nostra posizione in questo mondo: l'individuo può mutar poco del generale che trova di fronte a sé, ma qualcosina può cambiare, qualcosa che lascia apparentemente invariato l'ordine prestabilito.
   Questa è la prima interpretazione simbolica che ho tratto dopo due anni di maneggiamenti del contenuto della scatola di biscotti. Di fatto, dopo vent'anni circa di consuetudine con Wallaby io sono molto cambiato: sono cambiato perché son passati quattro lustri, ma io, è pur vero, mi sono dirozzato, mi sono "affinato", come diceva il mio amico, mi pare di essere migliorato , come lui voleva. La scatola mi da ancora uno stimolo finale di studio e riflessione, dopo la sua morte. Di fatto, il problema resta solo mio; potrei anche ora scendere in strada e regalare la scatola ai ragazzini giamaicani che urlano e giocano qui sotto, probabilmente si divertirebbero assai e dopo pochi minuti, quell'universo sarebbe sparso nelle tasche dei bimbi. Però non ci riesco, non lo faccio: non ho il coraggio di farlo, devo studiare la scatola ancora un po'.

 

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